Libere e scombinate suggestioni dal saggio di Byung-Chul Han.
C’è stato in questo luglio un tempo anomalo e non mi riferisco al caldo record.
La normalità si basa su una buona gestione del tempo: una cattiva pianificazione non produce rendimento. Durante l’anno infatti via di planning, agende, to do list, per casa, per il primo, il secondo e terzo lavoro, per il tempo libero, lo studio, gli avvenimenti importanti. Ne consegue pura-parvenza di efficienza con granella di stress.
I ceramisti non fanno eccezione. Scalziamo ogni residuale romanticismo.
Bello l’artigianato, anche la bottega, le mani, ma per generare un reddito occorre imbrigliare la creta in una maglia strettissima di passaggi, movimenti consequenziali e svegliette in rapida successione per ottimizzare i colaggi. E’ il tempo dispotico della creta che, vista così, svela un volto poco conosciuto di matrigna che non sente ragioni.
Se questa è la creta, nella rete vige il peggiore regime totalitario che annichilisce verità e libertà.
Come membri di questa famiglia Gualandi, oltre a chiederci cosa mangiare per cena e cosa incrementa la funzione esponenziale della crescita dei piedi di Giovanni, ci dovremmo domandare a piè sospinto “e come fregheremo l’algoritmo oggi?!”
La risposta a questa domanda sono i DATI e verrebbe in soccorso, ammesso di sapersi destreggiare, una disciplina ben precisa. Si chiama social media analytics, è la raccolta e analisi di dati per supportare decisioni aziendali e contenuti da canalizzare sui social media. Brivido freddo.
“Il dataismo introduce il secondo Illuminismo” scrive Byung-Chul Han, “il secondo Illuminismo leviga, spiana l’azione in un’operazione, in un processo guidato dai dati in cui non ha luogo alcuna autonomia del soggetto”. Poi Byung-Chul va giù pesante: “I dati hanno qualcosa di pornografico e osceno: non possiedono alcuna interiorità, alcun rovescio, alcun doppiofondo, e per questo si differenziano dal linguaggio che non ammette una definitezza totale”. I dati insomma generano informazione ma, anche qui, “l’informazione è una forma pornografica del sapere”.
In questo luglio in cui siamo ostaggi di un cantiere polveroso a casa, di un peregrinare fra camerette dell’infanzia dai rispettivi nonni, di gatti da riadattare a nuovi territori domestici, in un luglio in cui sono saltati tutti gli schemi, i drop e, ahinoi, le vacanze, affondiamo i pensieri in ambiziose letture alla ricerca di qualcosa.
Mentre si solleva una nube di limatura dalla cucina e invade il salone per espandersi ovunque, affondiamo nelle parole di un filosofo koreano alla disperata ricerca della salvezza.
La bellezza, è che lei ci salverà, ci avvisava già Dostoevskij. Anche nell’epoca digitale, Byung-Chul conferma.
Peccato spetti ridefinirla, perché la bellezza è insediata, viviamo in un’epoca di estetizzazione diffusa, piena di immagini levigate, pronte al consumo, Instagram ne è il regno per eccellenza. Abbiamo confuso il piacere con la bellezza.
Messa così luglio ci sta facendo un regalo. Ci dona questo tempo sospeso, che non è a reddito ma non è neanche libero, stretto stretto nel cono d’aria generato da un piccolo ventilatore da scrivania.
E da una scrivania proviamo a volare alto (o almeno a sollevarci dalle solite distrazioni).
Nei capitoli del suo saggio Byung-Chul fa luce sulle insidie che minacciano oggi la bellezza.
Ogni capitolo è un impervio viottolo di senso, proprio come sentieri alpini che alla fine regalano laghetti di pace. A noi questo saggio ha sedotto e ispirato questo sgangherato compendio, una vaga poesia visiva fatta di straordinarie antinomie che lasciamo puntellate sulla pagina.